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L’improvvisazione teatrale è solo spettacolo?

La prima volta che ho provato ad improvvisare ero convinto che ci fosse un unico ineluttabile obiettivo: far ridere. Ricordo che in quei pochi minuti misi a dura prova i miei neuroni alla disperata ricerca di battute “divertenti” o meglio ancora “entusiasmanti”. Già, perché un altro retro-pensiero che si era disteso nella mia testa, come uno striscione da stadio, era che “a essere divertenti ci riescono in tanti, ma se io sono geniale, beh, allora, li stendo tutti”. E così sperimentai il più feroce dei blocchi mentali. Niente! Non mi veniva in mente niente! Annaspavo nelle banalità e facevo fatica anche ad ascoltare ciò che il mio compagno in scena mi stava dicendo.

Non fu l’unica volta in cui dovetti fronteggiare il “fallimento” del mio ego geniale e dopo ogni occasione mi chiedevo cosa non funzionasse (quasi sempre, appena la scena era conclusa, avevo delle folgorazioni su come avrei potuto agire o cosa avrei potuto dire per farla decollare). Come facevano i bravi improvvisatori ad essere fluidi nella loro brillantezza?

Il primo momento di “crescita” lo ottenni quando mi accorsi che, in scena, tendevo a replicare una situazione che avevo vissuto ripetutamente a scuola e in tutte le occasioni in cui ero stato “messo alla prova”: aspettative altissime, la sensazione di dover seguire un percorso obbligato (come quando i professori mi dicevano con lo sguardo “o lo dici come voglio io o non va bene”) e il mio inconscio che sussurrava “eppure le cose le sai!”. 

Ma nel caso dell’improvvisazione, non c’erano percorsi prefissati. C’era uno spunto da cui partire e una prateria sterminata di possibilità. Compresi che non era la scelta troppo vasta il motivo del blocco ma il fatto di non saper scegliere senza che qualcuno, da fuori, indichi un criterio con cui farlo. Lasciarci imbrigliare ci dà sicurezza. 

Ora non restava che addomesticare un po’ il mio ego. Corse in mio aiuto l’incoraggiamento che, un giorno,  il mio insegnante di improvvisazione fece a noi allievi: “Siate ovvi”. Era lo stesso consiglio che Keith Johnstone, uno dei padri dell’improvvisazione teatrale, dava sempre ai suoi studenti. 

Che significa essere ovvi? Perché essere ovvi aiuta nell’improvvisazione?

Per prima cosa va riabilitato il concetto di ovvietà e separato nettamente dalle caratteristiche che gli abbiamo affibbiato arbitrariamente: mediocrità e scarso interesse. 

E’ ovvio che io chieda un mazzo di rose se entro da un fioraio o che risponda “le undici” a chi mi chiede che ore sono. E’ ovvio ciò che è consequenziale a qualcos’altro. 

Nell’improvvisazione teatrale essere ovvi aiuta ad abbandonare la smania del controllo sulla scena, è il modo più semplice e collaborativo di accettare la proposta che il compagno in scena ci ha fatto. Ma soprattutto, ci rende consapevoli che la nostra ovvietà è diversa da quella degli altri; dunque ci esorta a fidarci di ciò che emerge da noi. E’ ciò che impariamo nei corsi.

Ecco che in uno spettacolo, un improvvisatore senza aspettative, rilassato, libero di esplorare le infinite possibilità e fiducioso della propria “ovvietà” sarà in grado di ipnotizzare il pubblico e di essere padrone della scena. 

E adesso pensateci bene: fuori dal palco, nella vita, come definireste un uomo o una donna svincolati da aspettative, rilassati, liberi di esplorare le infinite possibilità e fiduciosi nella loro “ovvietà”? 

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